Queste sono le
parole con cui Piero Operti, antifascista e partigiano, difese i
suoi giovani studenti universitari reduci dell'esercito
repubblicano, nell'immediato dopoguerra.
"Si, o Signori, io son
quel desso. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”.
Appartenni alle Forze Armate della R.S.I. Voi vedete in me la
sentina di tutte le colpe, il ricettacolo di tutti gli errori, la
pattumiera di tutte le iniquità. Infatti tenni fede alla parola data
alla Patria quando la vostra saggezza aveva, quella parola, per
chiffon de papier; credetti quando tutto comandava lo scetticismo,
quando l’imboscamento veniva aureolato di gloria, volli continuare a
combattere. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”.
Fui soldato dell'onore - sostantivo maschile derivato dal latino "honor,
honoris" della terza declinazione regolare - e, mentre voi radiavate
dal dizionario questo vocabolo come contrastante con l'eclettismo
della itala gente dalle molte vite e dalle molte casacche, ricordai
che i Romani divinizzarono l'ONORE e il VALORE e li venerarono in un
medesimo tempio; e mentre la Fortuna giungeva a voi sulle ali dei «Liberators»
io ricordai che i Romani, dopo la rotta di Canne, edificarono un
tempio alla Fortuna Virile e che, conferendo maschiezza alla
fortuna, essi ne fecero non un dono del caso bensì una conquista del
valore.
Perciò il 5 giugno 1944, quando voi alzavate inni di giubilo per la
«liberazione» di Roma, io piansi le più cocenti lagrime della mia
vita e invidiai i camerati del «Barbarigo» caduti sulla via
dell'Urbe opponendosi con le bombe a mano, come il Maggiore Rizzatti,
all'avanzata degli «Sherman».
E, mentre a Trieste voi gridavate: «Meglio gli slavi che i fascisti»
e Radio Bari annunziava l'avanzata dei partigiani jugoslavi lungo la
costa istriana, chiamandola «litorale sloveno», io sostenni nella
selva di Tarnova, contro le bande dì Tito e gli ausiliari di
Togliatti, un aspro combattimento nel quale quasi tutti i miei
compagni del «Fulmine» persero la vita.
Fui soldato dell’Italia ritornata espressione geografica e sperai di
chiudere per sempre gli occhi per non vedere la sua plebe d'ogni
rango sciamare intorno ai vincitori, offrendogli i suoi fiori e le
sue donne e azzuffandosi per raccattar le sigarette gettate
dall'alto dei carri.
Quando, infranta la linea gotica, nelle vostre città voi
apprestavate archi di trionfo e vi gettavate ai linciaggi, io sparai
sul Senio sino alla mia ultima cartuccia e coi camerati superstiti
del «Lupo» ricevetti dal nemico l'onore delle armi, come Kosciusko a
Macovje, qualcuno in quel luogo e in quell'ora pronunziò le parole:
«finis Italiae».
Sono, o signori, il temerario ribelle alle suggestioni della
liberazione e della capitolazione.
Rimasi al fianco del tedesco perché la guerra non è un giro di
valzer e con lui l'avevo incomincìata, perché sapevo ch'egli ci era
nel presente e ci sarebbe stato nel futuro meno nemico degli
alleati, e perché prevedevo che costoro, essendo buoni sportivi, ci
avrebbero in qualunque caso meglio giudicati e trattati se non
piantavamo in asso il compagno di squadra nell'ora più dura della
partita. Per questo compagno avevo la stima che non può negarsi al
valore e che schiettamente egli ricambiava a tutti i buoni soldati.
Come in Grecia, in Russia, in Africa rimasi al suo fianco in Italia
e accanto a lui sanguinante camminai nel mio sudore e nel mio sangue
avendo di fronte lo schieramento del nemico, sopra di me la R.A.F.,
alle spalle le fucilate dei partigiani; e spesso dovevo chiedere a
lui le munizioni, essendo le mie inservibili perché sabotate nelle
fabbriche.
Venuto il mio turno, rifiutai la licenza, sapendo che al paese mi
attendeva l'agguato e volevo morire contrastando all'invasore la mia
terra e non assassinato da un italiano.
Mi strinsi
al cuore l'ultimo lembo
della Bandiera, quando voi ne davate i
brandelli ai negri perché li adoperassero come pezze da piedi. Nulla
mi sembrò più orribile del proclamarsi vincitori in una patria
disfatta e bruciai la mia anima nel rogo dell'Italia delle cui
ceneri avete fatto il Vostro Piedistallo.
Ebbi l'inaudita protervia di vedere fra i ciechi, di udire fra i
sordi, di camminare fra i paralitici, di piangere sulla fine della
mia Patria mentre voi tripudiavate sul principio della vostra
trionfale carriera. Risparmiato dalla guerra e dalla guerriglia,
scampato alla ecatombe liberatoria, sopravvissuto a Coltano e alla
galera, vengo dinanzi a Voi, o signori, a confessare il cumulo dei
miei delitti.
So bene che nessun castigo da Voi inflittomi potrà adeguarsi ad
essi; valga nondimeno ai vostri occhi la mia prontezza a pagare il
fio di tanti misfatti.
«Molto deve esserle perdonato perché molto ha amato», disse della
Maddalena il Redentore, e giustamente disse, poiché la donna
piangeva sul suo passato; così giustizia vuole che avendo molto
amato nulla a me sia perdonato, poiché il mio cuore, duro come una
pietra, è insensibile al pentimento. E' questa in verità, o Signori,
la mia ultima colpa, più grave da sola che tutto il carico delle
colpe passate: «non sono
pentito».
Ma avendo militato nell'opposta trincea io non posso pronunciare
questo discorso e perciò lo passo a qualche antico avversario il
quale mi sia oggi fratello nell'amore per l'Italia, affinché se ne
serva quando inciampa in quella domanda che io ho incontrata». |